Da Pavese a De Andre': suggestioni e allusioni pavesiane nella cultura pop italiana
Ringraziamenti a Mario Mignone e al Center for Italian Studies di Stony Brook
Sotto pressione ho dovuto inventare un titolo che corrispondeva vagamente ad alcune idee che stavo rimurginando da tempo ma che erano ben lungi dall’essere definitive.
Una volta messomi al lavoro con l’obbiettivo di questo convegno, ovviamente le idee si sono messe in cammino per conto loro per sentieri diversi e spinte da nuove letture-- come capita sempre un po’ a tutti, del resto perche’ sappiamo vagamente da dove partiamo ma non sappiamo mai dove finiremo.
Per cominciare devo dire che per me Pavese è una sorta di fissa recondita. Ho iniziato a leggerlo forse un po’ troppo presto, a 13 anni, spinto da uno zio pavesiano, scrittore e poeta in ambito provinciale/regionale di una certa fama – in italiano e in dialetto.
La mia iniziazione è avvenuta in modo inconsueto. Lo zio che si interessava un po’ a tutto, aveva sentito parlare di un certo Fabriozio De Andre’ e mi chiese se lo conoscevo. Immediatamente tirai fuori l’album volume primo, del 1967 e gli feci ascoltare le prime canzoni. Lo zio non fu particolarmente impressionato ma la sua disapprovazione raggiunse il massimo ascoltando le prime parole di “La Morte”. ”Ma ha copiato da Pavese” disse con un tono di superiorità e di sufficienza. Ne rimasi scioccato. Mi sembrava impossibile che il ‘mio De Andre’” avesse potuto fare una cosa del genere. Ma a tutta prova, lo zio mi diede un volume di poesie che conteneva appunto “Verra’ la morte.”
Li’ ho subito una sorta di imprinting che non mi ha piu’ lasciato. Non è un caso che la mia tesi di dottorato sia su Lavorare stanca e che a Pavese abbia dedicato le mie prime pubblicazioni. E ancora adesso, dopo anni che i miei interessi di ricerca si sono spostati verso ambiti diversi, Pavese è uno di quei temi cui torno sempre volentieri e senza sforzo.
Se parlo del mio ‘rapporto’ con Pavese, lo faccio per due motivi precisi: Primo, perche’ è anche un modo per introdurre la metodologia critica che definisce il mio lavoro, e cioè l’analisi del discorso e della testualita’ che, secondo un’impostazione che mi sembra adeguata a questo studio, consiste nell’usare il testo come specchio nel quale appaiono riflesse le proprie strutture interpretative ed emotive di fondo.
Secondo motivo, perche’si sta facendo strada in me la convinzione che lo stesso tipo di influenza pavesiana che io ho vissuto in prima persona sia un destino condiviso da una schiera molto ampia di lettori, perlomeno quelli fino a quelli della mia generazione, e forse anche più giovani. E se io e tanti altri siamo stati toccati nel profondo da Pavese, mi è venuto spontaneo chiedermi dove e come sia possibile ritrovare le tracce della sua influenza sulla cultura italiana in generale, e dove e come siano attecchiti i semi che ha gettato, e se infine non esista una sorta di albero genealogico il cui tronco è costituito dalla sua opera.
Per il momento non ho risposte definitive, e non saprei infatti identificare negli autori più tardi che hanno letto Pavese, le ‘fonti pavesiane’ dirette, come si identificano per esempio quelle dantesche o leopardiane. Nel bene e nel male.
Guardando alla letteratura, che è il primo ambito nel quale in teoria dovrebbe essere più facile trovare questa influenza, la mia ipotesi grezza di lavoro è che tracce esplicite sono piuttosto rare. Nonostante l’enorme popolarità della sua opera–di cui sono stato diretto testimone almeno fino agli anni 70 – 80, non mi sembra abbiamo molti casi di ammiccamenti, citazioni, o espliciti omaggi.
Quello che si rinviene invece sono dosi quasi omeopatiche, tracce quasi impercettibili e stilemi rimescolati dai vari autori secondo diverse poetiche e personali urgenze creative.
Forse Pavese era diventato tanto ingombrante e tanto ovvio nella sua influenza che qualsiasi riferimento esplicito sarebbe suonato come un ‘portar civette ad Atene’. O forse, e questa è l’altra possibilità che mi risuona dentro, il diluirsi della sua opera nella corrente della cultura letteraria italiana è dovuto al fatto che i suoi temi, i suoi ritmi, il suo sentire sono i temi comuni alla cultura popolare italiana nei suoi fondamenti direi quasi antropologici, cioè quel sostrato emotivo e cognitivo, di conoscenza empirica e metafisica, quella speciale sensibilità fatta di malinconia, di ennui, di ricordi, di sentimenti che accomuna gran parte degli italiani e che è un po’dovunque dentro di noi e tutt’intorno a noi. E in quanto tali, entrano quasi inconsciamente a far parte di tanta letteratura nascondendosi nello sfondo.
Parlando un giorno con Gianpaolo Biasin, compianto docente di Berkeley e autore del libro Smile of the Gods su Pavese, mi disse che anche lui ‘come tutti gli italiani’ aveva vissuto la sua dimensione pavesiana, la stagione dei dubbi e delle incertezze, di quella parte dell’uomo mai completamente maturo che si trascina dentro l’adolescente inquieto che mai lo abbandonera’ ed a cui fara’ ritorno nei momenti di crisi e di depressione.
Forse Pavese è un po’ il medium di una sensibilita’ diffusa, dispersa nell’atmosfera come le nebbie delle sue poesie, distillata e concentrata in forma di poetica e narrativa nella camera di compensazione della sua estrema sensibilita’, e da qui penetrata nuovamente nel sentire collettivo?
In Pavese, in altre parole, assisteremmo al fenomeno che gli anglosassoni chiamano “channeling”, un’esperienza paracosciente per la quale un artista si fa interprete semi-involontario dei grandi temi emotivi di massa di un’epoca o di una generazione. Un’esperienza che si ritrova non solo nei grandi nomi della cultura con la C maiuscola, ma soprattutto in quelli più piu’ accessibili al grande pubblico, i Bob Dylan, per esempio, o i Beatles.
I russi hanno trovato in Pushkin l’interprete della loro anima, i finlandesi in Sibelius. I ceki si riconoscono in Smetana e nel buon soldato Josef Svejk (Schweik). Non so se a Pavese possa dichiaratamente essere attribuita questa funzione, ma è indubbio che abbia colto nel segno per più generazioni di lettori italiani. Se non si trovano tracce palesi di Pavese come fonte, forse è perche’ le tracce sono talmente numerose e ovvie da rendere impossibile riferirle alla sua influenza. Che fare dei tanti paesaggi ‘pavesiani’ fatti di colline, ricordi, solitudine, ritorno alla terra, di senso della sconfitta e della morte, seminati qua e la’ in tante, tantissime espressioni artistiche, non solo nella letteratura, ma nel cinema e nel teatro e infine nella musica pop, segnale molto indicativo proprio del potere di penetrazione e della popolarita’ della sua opera.
Alcuni riscontri sono stati immediati ed espliciti. È il caso di Michelangelo Antonioni che nel 1955 gira Le amiche tratto da Tra donne sole. Recentemente, in occasione del centenario che salutiamo anche noi qui, sono state organizzate numerose serate di lettura delle poesie, e sono in circolazione nei teatri riduzioni teatrali dei Dialoghi di Leucò, per esempio.
Altrove, la critica ha segnalato esempi riconoscibili
di queste fonti, come nel caso del romanzo d’esordio Il polline, del
1966, di Gina Lagorio, piemontese di Bra, ambientato in un paesaggio
volutamente pavesiano, anche se lei stessa dichiaro’ apertamente che nel suo
sentire artistico era molto piu’ vicina a Beppe Fenoglio sul quale scrisse
anche numerosi saggi.
La corriera lo lasciò sotto Pietrabruna. Spariti subito nella curva i due compagni di viaggio, posò la valigia sul parapetto e si fermò a guardare. Si vedevano frane aggrappate alla collina e uliveti dentro voragini luminose. Era luce di mare. Si saldava alle cime, ai crinali, sino a Pietrabruna. Continua poco più avanti:
Era ormai sulla strada di casa. Riconosceva il mormorio della terra scoscesa, come quando vi giungeva, passato il mare, nel ricordo. - Arrivi? – gli chiese Luca seduto sul margo, fra ginestre che mandavano un odore dolciastro. - Non ti fa piacere vedermi? - Sono molto contento. È più la gente che va che la gente che viene. T’aiuto a portare la valigia.
È molto facile qui riconoscere i temi e, direi, la personalità degli scritti pavesiani. Forse meno ovvio e’ ritrovarvi il segno delle prima poesia di Lavorare stanca, in particolare “I Mari del Sud” con quel verso lungo di cui Pavese va orgoglioso, quello stesso verso che Lorenzo Mondo con la sua sensibilità di musicologo attribuisce nella loro struttura prosodica alla confluenza di ritmo dell’ottonario e del settenario, e che Guido Sarpero, tra altri, fa risalire a Whitman.
Era ormai sulla
strada di casa. Riconosceva il mormorio della terra scoscesa, come quando vi
giungeva, passato il mare, nel ricordo.
Confrontiamo il brano con i primi versi di I mari del Sud:
Camminiamo una sera sul fianco d’un colle in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo....
-Tu che abiti a Torino... m’ha detto – ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese. È soprattutto nella poesia che si impone la dimensione di incompiuta maturità ed in essa si manifestano i grossi interrogativi di un vuoto esistenziale e generazionale, che, almeno alle apparenze, si prolunga fino ai nostri giorni, almeno stando alle primissime battute di un film del 2005, Texas di Fausto Paravidino, che si apre con le seguenti parole:
Eravamo i cugini di Pavese e Fenoglio, ora siamo i fratelli di Kurt Cobain e Edward Norton.
Kurt Cobain, come sappiamo, è il leader della band Nirvana, morto suicida nel 1994, un gesto che scatenò un’enorme ondata di emozione in tutti i continenti. Edward Norton è il giovane, ambiguo ed inquietante attore holliwodiano, un po’ narcisista e un po’ scazzato che nasconde tutto sotto una sottile maschera di calcolata umanità.
È forse nella dimensione del ‘male di vivere’ che Pavese ha avuto la sua influenza più profonda. Secondo Furio Jesi egli ha avuto l’effetto di trasmettere una sensibilità che pervade gli intellettuali post-romantici, la Weltanschauug che lo accumuna a Thomas Mann e Karoly Kerenyi, la ‘religio mortis’ contraddistinta da nichilismo che:
O, per dirla con Pavese: O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Quando il materiale incanalato e metabolizzato da Pavese per conto della società che lo circonda torna nella realtà, dove trovarne le tracce? Probabilmente è negli interpreti di quelle sensibilità marcate dal male di vivere.
Forse in una ambito artistico meno schizzinoso di quella delle lettere, un ambiente dove la “mimesis” per dirla con Adorno e Benjamin si reifica senza imbarazzi, cioè si fa citazione dichiarata o addirittura, almeno secondo mio zio, scopiazzatura. Uno di questi ambiti a mio modo di vedere è proprio il mondo della musica, in particolare quel genere che nel mondo anglosassone si definisce come folk-pop e che in Italia va sotto il titolo di ‘canzone d’autore.’
Ho già avuto modo di parlare di De Andrè con “La morte.”
Una delle primissime cose che scoprii su Pavese fu, ovviamente, il suicidio. E mi sembrò una coincidenza quantomeno suggestiva il fatto che nello stesso album De Andrè avesse registrato anche una canzone intensissima, dedicata ad un suicida “Preghiera in gennaio”, il cui verso più famoso è” L’inferno esiste solo
per chi ne ha paura. Solo più tardi appresi che la canzone era dedicata ad un amico, Luigi Tenco, morto suicida per l’esclusione dalla finale del festival di San Remo, sempre nel 1967. Secondo Gino Paoli, che di Tenco era uno dei più intimi amici, Tenco amava profondamente Pavese.
Non è mia intenzione di suggerire il percorso Pavese – De Andrè via Tenco. Mi preme però sottolineare come il tema della morte sia legato in questi personaggi a eventi di sconvolgente drammacità, dentro quegli orizzonti di deliquio neo-nichilista di cui abbiamo discusso in precedenza.
Tuttavia non c’è esempio più evidente di atmosfera pavesiana diffusa che la canzone più famosa di Tenco: “Un giorno dopo l’altro.” A titolo personale diro’ solo che questa canzone mi ricorda fortemente “Lo steddazzu” l’ultima poesia di Lavorare stanca.
Mi rendo conto che da studiosi ci aspettiamo prove ben più consistenti che queste ‘impressioni’ per cui mi limitero’ solo a suggerire l’esistenza in questa canzone di un’atmosfera pavesiana, di cui l’autore stesso potrebbe essere inconsapevole.
Pavese deve la sua popolarità e la penetrazione nel fondo delle coscienze inquiete, oltre che alla sua opera, anche alla biografia di Lajolo che ha reso immortale il ‘vizio assurdo’. Tanto memorabile che uno degli episodi più distinti in essa descritti si trova in una delle più famose canzoni degli anni ’70.
Immagino che molti abbiano riconosciuto “Alice non lo sa” di De Gregori, apparsa nell’album omonino del 1973. L’episodio narrato da Lajolo racconta di un appuntamento di Pavese con una ballerina che gli tira il bidone. E lui, divorato dall’ansia e dall’insicurezza rimane per sei ore ad aspettarla sotto la pioggia, prendendosi anche una pleurite.
Chissà se è solo per caso che in questa canzone incontriamo i gatti che “muoiono nel sole” mentre Alice “tutto questo non lo sa.” Chissà se questi non siano gatti ignari che rispondono ai gatti onniscenti di Pavese della poesia “I gatti lo sapranno”?
Ma forse sono solo brezze che si insinuano nel subconscio e dal quale poi riemergono come scene di un sogno o come frammenti—immagine di una canzone, o magari, per usare proditoriamante la terminologia di Pavese, in immagini-racconto.
Ugualmente senza risposta rimane la domanda chi sia lo strano personaggio di Pablo nell’omonima canzone di De Gregori nell’album RIMMEL, del 1975. È uno spagnolo e certo viene in mente un certo Pablo che suonava la chitarra e che, intodotto senza grande entusiasmo nella clandestinità politica, finisce appunto per aiutare un fuoriuscito spagnolo, Gino Scarpa, ricercato dalla polizia fascista.
Che sia un richiamo al Pablo de “Il Compagno”, quello che dice: “Io suonavo – Pablo qui, Pablo là—ma non ero contento, mi e’ sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, ma quelli non volevano che gridare più forte.” E per finire c’è un altro personaggio nella canzone d’autore costretto a suonare “perchè la gente lo sa che sai suonare ed allora ti tocca suonare per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare.”
È il suonatore Jones di De Andrè e di Edgard Lee Master, quell’artista anarchico che non dedicò mai un pensiero ‘neither to wife nor kin, nor gold, nor love, nor heaven” e nella traduzione di De Andrè “non al denaro non all’amore nè al cielo”.
È in questa opera che affondano parte delle radici sia di Pavese che di De Andrè. Per De Andrè grazie a Pavese ma non necessariamente attraverso di lui, quasi come se De Andrè avesse voluto rendere omaggio al maestro raccogliendone allo stesso tempo l’eredità per trasmetterla ad un nuovo pubblico e a nuove generazioni.
|