FABIO GIRELLI-CARASI

City University of New York

Brooklyn College

New York

LA FINE DEL MELTING POT

IDEOLOGIA MULTICULTURALISTA E CULTURA DEL REGIONALISMO

Il titolo di questo saggio potrebbe tranquillamente essere "Perche’ il regionalismo appartiene al multiculturalismo", una proposizione provocatoria soprattutto in quanto da’ l’impressione di svilire le esperienze culturali legate ai topoi imprigionandole nella gabbia dorata dell’ennesimo "ismo", nato agli sgoccioli di un secolo che di "ismi" ne ha visti fin troppi. Ma vediamo come, nella realta’ che si e’ venuta delineando negli ultimi decenni, la cultura del regionalismo abbia invece tutto da guadagnare e niente da perdere nel considerarsi antesignana di valori ripresi e riproposti su scala globale da un fenomeno, la convivenza di diverse culture, che definisce l’esperienza della fin de siècle e, con ogni probabilita’ del futuro delle nostre societa’.

In febbraio a Los Angeles, in apertura della partita di calcio tra la nazionale degli Stati Uniti e quella del Messico i tifosi, in grande maggioranza ispanici, hanno fischiato sonoramente l’inno nazionale americano. Come se cio’ non bastasse, durante la partita hanno tirato bottigliette e lattine contro i giocatori USA, e sugli spalti hanno malmenato un tifoso della squadra americana che tentava di sventolare una bandiera stelle-e-strisce. Reazioni: da una parte un famoso columnist superconservatore, Pat Buchanan, per due volte candidato repubblicano alla nomination per la presidenza, conclude che il Melting Pot, il crogiolo, si e’ congelato e che e’ venuta l’ora di chiudere le porte agli stranieri e di costringere quelli gia’ nel Paese ad americanizzarsi. E se resistono, espellerli. Da sinistra, un editoriale del Los Angeles Times attacca i critici dei tifosi chiamandoli "xenophobic, nativist, protectionist and isolationist."

Al di la’ dello specifico episodio, il dibattito si e’ radicalizzato secondo paradigmi di assoluta intransigenza reciproca. Un altro columnist conservatore osserva che "l’ immigrazione e’ un fallimento perche’ l’assimilazione, contrariamente a quanto sostiene il mito nazionale, non e’ mai avvenuta". Sull’altro lato, Juan Perea, multiculturalista dichiarato, docente di giurisprudenza alla University of Florida, afferma che "l’americanizzazione come premessa dell’identita’ americana deve essere o completamente ripensata o abbandonata in toto", una prospettiva questa che considera l’assimilazione alla stregua di una sorta di strisciante pulizia etnica.

Di fronte a queste posizioni ortodossamente preconcette non rimane che osservare con tristezza che i vecchi cari schemi del passato ormai non reggono piu’. La verita’ nuda e cruda e’ che ne’ la destra ne’ la sinistra hanno piu’ gli strumenti o gli argomenti per rispondere a questi tipi di avvenimenti.

Siamo, tanto per cambiare, nel mezzo di una crisi. Una crisi che non investe solo gli Stati Uniti ma che chiaramente si manifesta con varianti locali anche nel Vecchio Continente. A scontrarsi sono modi diametralmente opposti di concepire le societa’ in cui viviamo e l’identita’ di gruppo.

Prendiamo le cose un po’ da lontano: fino all’avvento della nazione americana l’unico modello di multiculturalismo conosciuto alla storia era quello imperiale, una dimensione sovrannazionale con una sua organizzazione politico-economico-militare che concedeva ai singoli popoli (allora si chiamavano cosi’) liberta’ di lingua, religione, tradizioni e entro certi limiti anche di leggi, cioe’ tutto quello che chiamiamo cultura. Negli altri casi in cui due o piu’ popoli convivevano condividendo un territorio o all’interno di una unica dimensione politico-militare (feudo, regno, stato o nazione) solitamente un popolo era egemone e gli altri erano in posizione subalterna se non addirittura sottomessa o oppressa. Con l’avvento degli Stati Uniti, ed in particolare dopo la fine della guerra civile nel 1865, con l’apertura della Frontiera del grande West, nasce un nuovo modello, legato e direttamente discendente al moderno fenomeno dell’immigrazione. In precedenza nella storia dell’umanita’ c’erano stati si’ spostamenti di popoli, invasioni, conquiste ed espulsioni, ma l’immigrazione del singolo come fenomeno di massa (ed e’ interessante questa contrapposizione di termini, "immigrazione individuale di massa") era un fatto sconosciuto.

L’establishment americano guardava alle culture degli immigrati arrivati come a culture subalterne, da tenere d’occhio con sospetto o tutt’al piu’ con curiosita’ antropologica, da tollerare temporaneamente in attesa della totale assimilazione. Un’assimilazione che si e’ verificata con "successo" anche perche’ l’immigrato non aveva gli strumenti concettuali per resistervi. L’immigrato accettava implicitamente l’inferiorita’ della propria cultura e sperava nell’opportunita’ di accedere a quella superiore. Possedeva cioe’ una cultura ma non l’ideologia della propria cultura. Al contrario, e qui vengo al primo confronto, il regionalismo un’ideologia della propria cultura ce l’ha e l’ha sempre avuta, ed e’ legata al concetto di territorio. Ovviamente il territorio negli Stati Uniti non poteva servire da ideologia di partenza, in quanto il territorio stesso era "aperto" e disponibile ai nuovi arrivati. Anzi, l’ideologia territoriale affermata in termini culturali di storia e tradizione, rappresentata dalla "resistenza" degli indiani all’assimilazione, era antitetica rispetto al disegno nazionale di conquista e colonizzazione. E si sa bene quale sia stato il destino degli indiani.

La situazione cambia drasticamente negli anni ’60, che per la storia del pensiero contemporaneo sono una sorta di Rinascimento e Illuminismo fusi in un unica breve e violenta esplosione. A incaricarsi di forgiare l’ideologia delle culture subalterne e’ il movimento dei diritti civili dei neri d’America. La battaglia per i diritti civili non e’ solo una lotta per l’uguaglianza. E’ soprattutto la battaglia per il diritto di NON essere assimilati. In questo Malcom X e’ piu’ esplicito di Martin Luther King: i neri non si battono per il diritto di diventare bianchi, ma per il diritto di rimanere neri con pari dignita’ rispetto ai bianchi. Contro il concetto del Melting Pot.

L’apparato ideologico e filosofico del movimento per i diritti civili affonda le sue radici nella religione ma soprattutto nella legge naturale, fondamento a sua volta della filosofia illuminista e massone di matrice anglosassone su cui sono state costruite pezzo per pezzo sia la Dichiarazione d’Indipendenza che la Costituzione americana.

L’ideologia dei diritti civili mette i propri strumenti retorici e dialettici a disposizione di tutta una serie di altre realta’. Ed ecco allora altri gruppi affacciarsi a rivendicare il diritto alla propria identita’: per prime le donne, seguite a breve distanza dal movimento per i diritti degli omosessuali. L’ideologia dei diritti civili matura, si raffina negli strumenti dialettici, si estende ad ambiti occupati da altre ideologie, in particolare all’ideologia territoriale-regionalista. Si scopre che non e’ piu’ necessaria l’identificazione con un territorio per essere considerati "cultura". Ed e’ cosi’ che si impone il concetto di "multiculturalismo.

Da alcuni anni osservo con attenzione le dinamiche politiche e culturali che contrappongono le posizioni etnocentriste a quelle multiculturaliste in America. Un’attenzione che si e’ spostata anche sull’Italia dove il fenomeno ha cominiciato a prendere forma agli inizi degli anni ’90. In quegli anni in Italia si era letteralmente agli albori del dibattito sul multiculturalismo e sembrava sufficiente farsi guidare dal buonsenso per riuscire ad affrontare con successo sia le problematiche mature dell’autonomismo che quelle emergenti dell’immigrazione. Erano posizioni piu’ d’istinto che su base dialettica i cui termini generali erano: multiculturalismo significa pari dignita’ delle culture minoritarie, difesa dei diritti politici e civili delle minoranze, difesa delle lingue, delle tradizioni popolari e religiose, e persino difesa di particolari tradizioni giuridiche. "Difesa" ma da che cosa? Qual era il nemico? Nel passato il nemico erano "gli altri", un altro popolo, un’altra nazione, un’altra religione. Nella dimensione multiculturale degli stati moderni il nemico oggi e’ il concetto democratico di maggioranza, inteso nel suo significato piu’ restrittivo di maggioranza numerica, riassunto nella formula mitologica "50 per cento piu’ uno".

Gli etnocentristi usano gli argomenti propri della democrazia portati alle loro estreme conseguenze. Usano cioe’ gli argomenti di un’ideologia vincente. Ed ecco allora l’urgenza di armarsi di un’ideologia altrettanto potente, l’ideologia di quella che negli Stati Uniti si chiama "DIVERSITY", diversita’. Questa ideologia e’ il multiculturalismo.

Quali sono dunque gli ambiti di questa autonomia, e quali sono le conseguenze del modello di organizzazione sociale proposto dal "multiculturalismo"?

Negli anni ‘80 abbiamo assistito ad un’accelerazione quasi da fantascienza dei processi storici: basti pensare al decennio che si e’ aperto con la Polonia nel 1980 e si e’ concluso con Berlino nel novembre 1989. Negli anni ‘90 e’ stata la volta di una equivalente accelerazione delle dinamiche sociali. Dallo scatenarsi di queste forze, storiche e sociali, che hanno sconvolto paradigmi ritenuti immutabili, e’ emersa la centralita’ dell’ideologia multiculturale. Ora che da "problema locale e territoriale" quello dei rapporti tra culture e’ divenuto problema intra-nazionale e sovrannazionale, il multiculturalismo si offre anche come l’ideologia delle problematiche dell’autonomia e dei i diritti delle minoranze etniche e linguistiche su base territoriale.

La questione che si pone ora e’ "quale multiculturalismo?" Una definizione "forte" del multiculturalismo, per usare la terminologia post-moderna, la troviamo in un insospettabile pensatore del secolo scorso, il quale , nel "Viaggio di Pulcinella" (1832) disse che lo "spirito patrio" sta nel "municipio", laddove lo "spirito nazionale" e’ una "mole terribile e smisurata". E ammonisce: "dividete popolo da popolo, citta’ da citta’, lasciando ad ognuna i suoi interessi, i suoi statuti, i suoi privilegi, i suoi diritti e le sue franchigie", perche "i cittadini si devono persuadere di essere qualche cosa in casa loro".

Nel "Catechismo filosofico", dialogo del 1832, lo stesso pensatore cosi’ definisce la Patria:

MAESTRO: La Patria é precisamente quella terra [sc. citta] dove siamo nati,

e in cui viviamo insieme con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il

suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche proprietà, e una

moltitudine di interessi e rapporti.

DISCEPOLO: Lo stato al quale apparteniamo [sc. lo stato papale] é anch'esso

la nostra Patria?

MAESTRO: Propriamente parlando non lo e’, perche gli abitanti dello stato ci

sono quasi tutti sconosciuti, i loro interessi e quelli della loro citta’

sono in gran parte diversi dai nostri, e non di rado sono in opposizione

coi nostri.

Il nostro pensatore e’ Monaldo Leopardi di cui tutti gli italiani, pur non avendone mai letto nemmeno una riga, sanno comunque che era "codino, reazionario e bigotto" come testualmente riportano tutte le sacre antologie della letteratura.

Multiculturalismo come difesa estrema, dunque (e sottolineo "difesa"). Si legga anche proprio l’argomento della minoranza minacciata, cosi’ chiaramente espressa da Monaldo, quando dice "i loro interessi sono in opposizione ai nostri". Piu’ chiaro di cosi’…

All’estremo opposto, cento e sessanta anni piu’ tardi, e’ un uomo dell’estrema sinistra, un rivoluzionario ed intellettuale controverso come Régis Debray che ribalta i sacri dogmi del terzomondismo, e in una famosa intervista afferma che nel mondo moderno "gli oggetti si vanno globalizzando, mentre i soggetti si vanno tribalizzando".

Debray ovviamente si riferisce, condannandola, alla cultura del consumo globale: i vari Nike, MacDonald’s, Benetton, Toyota, la musica, i film e Internet. E si riferisce anche ai consumatori stessi (anch’essi oggetti) che il marketing suddivide non solo in categorie anagrafiche (sesso eta’ stato civile reddito) ma anche per profili psicologici: emulatore, integrato, leader, gregario, avversario, emarginato. Ma Debray prende un abbaglio quando non si avvede che vi sono altri "oggetti" che oggi stanno subendo un processo di globalizzazione: sono i processi sociali che nascono all’interno di una cultura e che lentamente avanzano sull’intero palcoscenico mondiale, usando come strumento proprio gli argomenti dialettici del multiculturalismo.

E qui mi riallaccio alla tesi dell’enorme accelerazione dei processi sociali che hanno portato alla luce nuove istanze sconosciute fino a poco tempo fa. Negli ultimi 20-30 anni troviamo una dozzina di questi ‘oggetti" che sono divenuti fenomeni o quantomeno temi globali: il femminismo, l’ambientalismo, l’animalismo, i diritti degli omosessuali, i diritti degli handicappati, il diritto alla salute, affirmative action, pari opportunita’, sexual harassment, i diritti dei bambini e degli anziani, la lotta alla pornografia infantile. Partiti da ambiti ristretti, oggi sono temi ad impatto mondiale, sono anch’essi "oggetti globali". Ed e’ proprio a causa di questa globalizzazione dei fenomeni sociali che l’ideologia regionalista territoriale non basta piu’ a fare i conti con il mondo di oggi.

A questo punto va osservato un paradosso patente: il multiculturalismo e’ anch’esso oggetto globale, tuttavia e’ l’unico antidoto disponibile contro l’altro demone denunciato da Debray, la "tribalizzazione del soggetto". Senza la dimensione multiculturale, i soggetti diventano tribu’, dove per tribalismo si intende da una parte il rifiuto totale da parte di una minoranza a scendere a compromessi, anche i piu’ insignificanti, sui propri costumi, e contemporaneamente dall’altra la pretesa di imporre agli altri le proprie pratiche. Come succede a New York per esempio, dove gruppi estremisti islamici non solo vogliono il diritto di tenere a casa da scuola i bambini di venerdi, ma esigono che tutte le scuole pubbliche vengano chiuse il venerdi e aperte il sabato e la domenica. (Avevo appena terminato di stendere questo saggio quando su La Repubblica del 10 giugno 1998 e’ apparso un articolo sulle rivendicazioni delle comunita’ islamiche in Italia, soprattutto in ambito scolastico. Tra queste, il diritto delle ragazze a portare il chador –e come e’ possibile controllare l’identita’ delle studentesse in sede d’esame?-- ; mense con cibo preparato secondo i rituali islamici ed eliminazione dei prodotti suini; diritto alla preghiera durante le ore di lezione, separazione di maschi e femmine nelle ore di ginnastica – e dove andiamo a prenderle le strutture?--; assunzione di insegnanti bilingue italiano-arabo).

E’ quantomeno straordinario che una persona della sinistra come Debray usi un termine fortemente semantizzato come "tribù" per definire i confini estremi del costrutto ideologico del multiculturalismo. Fino a pochi anni fa il marxismo- leninismo ortodosso appoggiava a spada tratta qualsiasi espressione di localismo come espressione di "lotta degli oppressi". Cio’ non faceva necessariamente a pugni con l’altro dogma, quello dell’internazionalismo, in quanto quest’ultimo era una pura finzione retorica che non correva il rischio di scontrarsi con la realta’ dei fatti. L’internazionalismo dei marxisti oggi ha una nuova faccia ed un nuovo nome, ed è globalizzazione. Ed ecco allora che "esplodono le contraddizioni" per usare la classica terminologia marxista: la sinistra (Debray) che prima era a favore sia dell’internazionalizzazione che delle autonomie locali, oggi e’ contemporaneamente contraria sia alla globalizzazione che alla tribalizzazione.

I "multiculturalisti" (in un articolo apparso sul New York Times un critico li chiama proprio così) si trovano cosi’ stretti tra l’imbarazzante compagnia di Monaldo Leopardi a destra e il rischio di involuzione tribale denuciato da Debray a sinistra.

Cosa fare e dove andare? In una sorta di serafico e olimpico ‘lassez faire’ filosofico, ci si potrebbe genericamente appellare ad una soluzione, come dire?, "dialettica" del contrasto. Ma dialettica applicata a quale corpo del contendere, a quale "discourse", per usare la terminologia postmoderna?

Qualcuno suggerisce che multiculturalismo non e’ altro che un 99% di tolleranza. Se cio’ e’ vero, in nome del multiculturalismo, sara’ legittimo acconsentire che una bambina islamica porti il velo in classe anche se cio’ contravviene ai regolamenti statali della scuola. Ma in nome del multiculturalismo e’ anche legittimo acconsentire alle pratiche di mutilazione genitale di una bambina nata in Europa da genitori immigrati dalla Nigeria? E se anche cio’ e’ legittimo, in nome del multiculturalismo e’ legittimo agli stessi genitori adottare una bambina europea e sottoporla alla mutilazione genitale secondo i loro costumi e tradizioni?

Multiculturalismo in altre parole non puo’ essere un assegno in bianco o una garanzia di immunita’. Il multiculturalismo deve darsi e presto delle coordinate riconoscibili e degli obbiettivi radicati in un consenso etico, se non vuole rassegnarsi a sopravvivere come la versione di lusso del "relativismo culturale." Solo a quel punto il mito e la metafora del Melting Pot potranno finalmente finire in soffitta.

La sfida ultima e’ proprio quella degli obbiettivi. Che cosa vuole ottenere il multiculturalismo? Una delle riflessioni che credo tra le piu’ profonde viene da quello che oggi e’ uno dei piu’ autorevoli pensatori americani, Leon Wieseltier, filosofo morale e filosofo dell’ebraismo contemporaneo oltre che literary editor della New Republic, il settimanale intellettuale di politica e cultura di maggior prestigio oggi negli Stati Uniti. In un articolo sul multiculturalismo Wieseltier ammonisce dal perseguire l’obbiettivo della societa’ multiculturale e la traiettoria "tribale" dello stato multiculturale. Cito a memoria: "La societa’ multiculturale esiste gia’. L’abbiamo vista in azione – dice --- e si chiama Bosnia. Cio’ di cui abbiamo bisogno non e’ una "societa’" multiculturale, ma individui multiculturali". Individui cioè la cui identita’ sia pluridimensionale e che dalla pluridimensionalita’ traggano dall’interno di se’ gli strumenti di quella dialettica che consentira’ di superare l’automatismo del dogma su cui ingrassano le ideologie.

E’ finito dunque il melting pot? Si, nel senso che non e’ mai esistito. E in un paese come l’Italia, al riparo da rischi di estremizzazione bosniaca, la mia impressione e’ che esistano le condizioni reali per cui il multiculturalismo si imponga come valore dialettico vero e che ne venga sconfitto il ‘gemello cattivo", il tribalismo che porta dritti dritti alla "Bosnia delle culture".