FABIO GIRELLI-CARASI

City University of New York

Brooklyn College

New York

MULTICULTURALISMO COME IDEOLOGIA

NELL’UNIVERSITA’ E NELLA SOCIETA’ AMERICANA

Le universita’, si sa, sono bastioni di conservatorismo con una lunga esperienza di censura al limite dell’inquisizione. Tutto cio’ nascosto dietro le obbigatorie e ciniche genuflessioni ai principi del libero pensiero. Non e’ un caso quindi che proprio nelle universita’ si scatenino le reazioni piu’ violente contro lo status quo, ad opera solitamente di pochi disperati che caricano sulle proprie spalle la rabbia repressa dei molti. Quella che segue e’ la storia in sedicesimi di una ribellione, nata e nutrita nelle universita’ americane, che ha avuto come conseguenza la nascita di un un nuovo paradigma di pensiero che si sta imponendo come la piu’ fertile ideologia di fin-de-siècle: il cosidetto "multiculturalismo". Il mio obbiettivo è di illustrare alcuni fatti e suggerire spunti di riflessione sulla natura del furibondo dibattito in atto in America e come questo sia destinato a dominare il palcoscenico politico del secolo prossimo venturo, non solo al di la’ dell’Atlantico, ma anche entro i confini di casa nostra.

Per cominciare eviterò di parlare in astratto di "università" americana al singolare, come se esistesse un'entità metafisica che si manifesta sotto forme diverse in singoli istituti. Come è risaputo, il sistema educativo superiore degli Stati Uniti è una galassia formata da sistemi solari, pianeti, satelliti, asteroidi e comete. E in questa galassia ciascun corpo celeste ha caratteristiche proprie che lo contraddistinguono e lo rendono irripetibile e irriproducibile.

Nel corso dell'ultimo decennio le università statunitensi sono state investite da un uragano culturale che ha scosso alle fondamenta le certezze culturali si cui si basa gran parte dell'insegnamento umanistico, e non solo quello. Un uragano meno appariscente ma dalle conseguenze molto più profonde che non le ribellioni studentesche anti-establishment degli anni ‘60, inizi anni ‘70, alla cui radice, a parte il catalizzatore della guerra nel Vietnam, era il movimento per i diritti civili. In quegli anni, all'università veniva contestata la funzione conservatrice in senso sociale e quindi economico. Le università regolavano l'accesso agli strati superiori della società, accesso che nei decenni precedenti era stato praticamente interdetto ai non bianchi, e seriamente ristretto alle donne ed ai cosiddetti "bianchi etnici", ebrei, italiani e irlandesi. Tra le università private dell'area metropolitana di New York, per fare un esempio, New York University negli anni prima e dopo la guerra era nota come "l'università degli ebrei", in quanto le altre due prestigiose istituzioni della zona, Columbia e Princeton praticavano una discriminazione aperta nei confronti degli ebrei assegnando loro una piccolissima quota percentuale delle iscrizioni.

La ribellione degli anni ‘60 colpiva al cuore della missione paradossale che la società aveva affidato all'università: quello di escludere. La santità del principio non era mai stata contestata: le università difendevano i valori di una civiltà dagli altissimi conseguimenti, degni di ogni sforzo di conservazione e protezione da chi si presumeva avrebbe potuto con la sua semplice presenza "cambiare" i connotati di quel costrutto. Non è per niente casuale che questa funzione dell'università abbia proprio nella dimensione linguistica quotidiana la propria reificazione. "Esclusivo" è ancora oggi un termine standard, a livello zero, desemantizzato, con il quale, come per un dato di fatto, si designano le università private più prestigiose e costose, da quelle della Ivy League, a quella dei "liberal arts colleges" del New England. L'esclusività attuale, nonostante le apparenze, ha ancora a che fare con lo status economico dello studente, più che con la sua caratura intellettuale, contrariamente a quanto vorrebbero dare a credere gli uffici di ammissione. Il meccanismo del numero chiuso fungeva e funge tuttora da valvola che regola l'accesso agli strati superiori della società.

Ho definito paradossale la missione dell'università, perchè l'esclusione era in funzione del suo opposto, cioè dell'inclusione, la cooptazione dei "migliori", dei "più capaci", dei "meritevoli", dei più malleabili, dei più ansiosi di "appartenere". Fino agli anni '40 l'esclusione veniva praticata per genere e per classe economica, in cui era implicita anche la razza. Dopo la sconfitta del socialismo interno negli anni ‘30, e in modo ancora maggiore dopo la seconda guerra mondiale, con la rapida espansione dell'economia viene a cessare l'esclusione per classe. Un ruolo fondamentale lo svolge il "G.I. Bill," la legge che isituisce centinaia di migliaia di borse di studio universitarie destinate ai reduci del conflitto. Ai nuovi inclusi, ai "bianchi etnici" e, in parte, alle donne, vengono spalancate le porte della prosperità. L'"American dream" si avvera per molti e con esso quello di appartenere al mito della middle class. A patto naturalmente di accettare l'assimilazione, cioè l'interiorizzazione della norma della classe dirigente e della sua visione etica di implicita supremazia razziale e religiosa. In poche parole i nuovi arrivati sono considerati sufficientemente civilizzati da entrare nel salotto buono. Ad alcuni, ulteriormente civilizzabili, verrà poi addirittura consentito di aspirare all'iperuranio della leadership politica, sociale ed economica.

L'apertura delle università comporta dei rischi. E' tipico infatti che quanto più un'istituzione è chiusa verso l'esterno tanto più sia tollerante di eresie al suo interno. Ma nel momento in cui essa si apre all'esterno, scattano meccanismi feroci di ortodossia e controllo ideologico dentro le mura. A riprova di ciò negli anni '50 il senatore Joseph McCarthy ed il suo comitato senatoriale sulle attività anti-americane, in cui si distingue per zelo il giovane avvocato Richard Nixon, per scatenare l'isteria antibolscevica delle masse si scaglia contro i falsi bersagli di Hollywood. Ma in realtà l'obbiettivo strategico è un altro. Sono le università, dove il vento freddo della falce anticomunista fa strage, con dozzine di denunce, di dimissioni forzate, di licenziamenti, e centinaia di carriere bruciate sotto la coltre spessa di accuse infamanti. I più minacciati e sospettati sono, ovviamente, gli ultimi arrivati. E' proprio solo una coincidenza casuale che le estreme vittime del maccartismo siano stati due intellettuali ebrei, i Rosenberg, condannati alla sedia elettrica per alto tradimento? Il messaggio era chiaro per tutti.

Negli anni '60 si incrina un'altra barriera, quella razziale. La corte suprema bolla come anticostituzionale la discriminazione non solo de jure ma anche de facto. Le università statali in particolare ricevono dai tribunali disposizioni precise affinchè raggiungano l'obbiettivo di un "mix" razziale rappresentativo delle componenti etniche dell'ambito in cui operano. Sui banchi siedono finalmente più neri, ispanici e asiatici ma i contenuti dell'insegnamento rimangono quelli che sono, o cambiano solo in superficie. L'istruzione è volta a formare cittadini che "pensino" come uomini bianchi, o, nel migliore dei casi, che si comportino nella propria identità distinta secondo il ruolo che ad essi hanno assegnato gli uomini bianchi. Da una donna ci si aspetta che studi da insegnante, e se vuole proprio fare il medico, la si indirizzerà verso pediatria. A un nero si chiede che giochi bene al football o a basketball, che aspiri al massino ad un lavoro statale e che non punti troppo in alto. Sulle prime il piano funziona, ma ben presto i nuovi arrivati fanno sapere a chiare lettere di non essere d'accordo. L'inclusione delle loro persone non basta. Essi hanno sì accesso legale all'università dei bianchi, ma si accorgono che non vi hanno accesso la loro cultura, le loro esperienze, i loro valori. Non si accontentano più di essere rappresentati percentualmente in modo equo rispetto ai bianchi. E non accettano di essere inclusi, se inclusione significa essere costretti a diventare "l'altro". Rifiutano l'inclusione da parte dell'"altro" e invertono i termini del discorso: sono i bianchi, gli uomini, ad essere "l'altro". Improvvisamente essi vogliono che sia sentita anche la loro voce.

Agli inizi degli anni '70 i programmi, il cosiddetto "curriculum", sono imbevuti fino al midollo di ideologia maschile bianca. Sostenuti dall'ala liberal del corpo docente, mettendo sotto pressione il senato accademico, le minoranze costringono le università a varare i primi corsi facoltativi nelle nuove discipline di studi afro-americani e di "women's studies", cioè studi femminili, che vengono di solito ospitati nei dipartimenti più rivoluzionari: sociologia, antropologia culturale, letteratura, e più raramente a storia e a filofia. E' proprio nei campus, in questi anni, che vengono formulate e diffuse le ideologie radicali femministe e qui trovano terreno fertile i movimenti separatisti neri. I corsi si diffondono. Le serie di corsi organizzati secondo un disegno coerente vengono dapprima cresimati come programmi interdisciplinari con piani di studio di laurea interdipartimentali. Con l'ulteriore crescita del numero dei corsi, ai programmi viene conferita l'ordinazione sacerdotale a dipartimento, cui segue l'apoteosi della canonizzazione quando al dipartimento viene finalmente concesso il diritto di offrire programmi di dottorato. A questo punto sembra che il gioco sia fatto. Le culture subalterne sono entrate a far parte del "sistema", e per di più nel giro brevissimo di cinque-dieci anni.

Ma all'euforia di queste conquiste, presto fa seguito la disillusione. A partire dagli anni '80 viene alla luce la realtà semi-fallimentare di questa strategia. Ai corsi di studi afro-americani si iscrivono al 98% neri. Nei dipartimenti di studi femminili oltre l'85% degli studenti sono donne, con punte del 95% nei corsi tenuti da docenti notoriamente "militanti." Si creano così dei veri e propri ghetti culturali, in cui entrano solo i convertiti. I docenti, per usare un'espressione dei Battisti, predicano solo al coro, e il messaggio, ad un osservatore esterno pare ripetere un solo tema: condanna a priori senza appello, senza dibattito, senza dialettica, della cultura egemone bianca. L'impatto di questi dipartimenti come centri di cultura sul resto delle comunità universitarie è minimo. Consci dell'isolamento in cui si sono infilati, i più attenti partono al contattacco. Asserragliati all'interno del sancta sanctorum lanciano accuse contro il tempio che ha aperto le sue porte all'esterno: "Siamo vittime di un complotto, di un'astutissima manovra del potere maschile bianco che ci ha attirato in una riserva per isolarci e soffocare le uniche voci che possono portare al cambiamento dei presupposti culturali che sottindendono ai rapporti tra gruppi sociali. Ci viene impedito di fare cultura per tutti e siamo esclusi dal processo di formazione stessa della cultura. Abbiamo capito il vostro gioco e non ci cascheremo più."

Le rivendicazioni sono esplicite: "Non vogliamo più i dipartimenti-ghetto: vogliamo che la nostra storia, la nostra letteratura, la nostra filosofia politica facciano parte della storia letteratura filosofia. Vogliamo cioè partecipare alla formazione del discourse dell'educazione. Vogliamo che il nostro modo di leggere la realtà faccia parte integrante della realtà, così come la vostra lettura della realtà è la realtà. Vogliamo che il nostro discorso di donne, di neri, di handicappati, di omosessuali, entri nel tessuto del discorso di questa società su se stessa. Non accettiamo più di essere 'l'altro': rifiutiamo l'inclusione e invertiamo i termini del discorso: sono i bianchi, gli uomini, ad essere 'l'altro'. Non ne possiamo più dei modelli del passato, della cultura autoperpetuantesi dei 'dead white men', 'i defunti uomini bianchi', che, con licenza di traduttore, renderei con 'la cultura dei sepolcri imbiancati'. Di sesso maschile, s'intende.

Obbiettivo minimo delle nuove rivendicazioni: revisione del curriculum, con l'inclusione di alcuni corsi obbligatori a contenuto non euro-centrico per tutti gli studenti. Alcune università si sono adeguate: a Stanford gli studenti devono seguire almeno tre corsi in due categorie: "Civiltà non europee" e "Razza, genere e egemonia". Dozzine di altre università si sono buttate a perseguire l'obbiettivo di esporre le giovani ed impressionabili menti delle matricole a prospettive alternative attraverso corsi quali "Letteratura francese sub-sahariana", "Origini del sufismo", "Corso panoramico di storia cinese" e "Sociologia della maternità". In alcuni quartieri le resistenze sono fortissime: nei dipartimenti di inglese molti insistono ancora su "Chaucer, Milton, Shakespeare" (il cosiddetto Chocolate Milkshake) e non si piegano a Toni Morrison e ad Alice Walker.

Le istanze dei docenti e degli studenti "minoritari" non finiscono qui. Non bastano corsi con una prospettiva "alternativa" rispetto a quella dei sepolcri imbiancati. La battaglia infuria sull'identità della cultura stessa, su come essa è rappresentata e canonizzata nelle università. La battaglia è per il controllo del canone: il contenuto stesso dei corsi, le fonti da usare, gli autori da affrontare, quali avvenimenti studiare e come e da quale prospettiva. In discussione è il discorso della cultura nel suo insieme, la Weltanschauung che trapela da tutte le scelte all'interno dell'università, il processo critico, il controllo del processo di formazione dell'estetica, i criteri che per oltre duemila anni hanno tramandato quasi esclusivamente la memoria di defunti uomini bianchi e che hanno fatto erigere altari a Michelangelo poeta e pittore e obliterare dalla memoria Gaspara Stampa e Artemisia Gentileschi.

Il dibattito coinvolge gli studenti che vi partecipano con con intensità appassionata. In alcune università tenere lezione è come attraversare un campo minato. Gruppi agguerriti di femministe setacciano i libri di testo alla ricerca di ovvie e meno ovvie tracce di sciovinismo. Le parole di ogni lezione sono soppesate alla ricerca di latente razzismo. L'elenco delle parole risemantizzate cresce a vista d'occhio e guai a chi sbadatamente non si tenga al corrente. Le accuse di insensibilità, sciovinismo e razzismo vengono lanciate a piene mani. Un insulto a contenuto razziale viene investigato dal comitato disciplinare e considerato alla stregua di "atto di violenza". Le minoranze non tollerano l'intolleranza e stanno cercando di sostituire a quello esistente, il proprio "discorso della lingua", per usare il termine del filosofo Michel Foucault. Ma non è il clima di intimidazione a prevalere. Tutt'altro: una buona parte del corpo docente si mostra aperto a questa opera di rieducazione nei propri confronti da parte delle masse studentesche e si allinea su nuove posizioni, accetta ripensamenti, e si schiera a favore dei cambiamenti suggeriti.

Naturalmente il dibattito non si consuma più solamente all'interno delle università, ed è divenuto l'oggetto di aspre contese intellettuali sul palcoscenico della società, con centinaia di articoli eruditi pubblicati in altrettanto eruditi mensili di cultura, dozzine di libri di pensatori famosi recensiti in settimanali di vaglia, interventi lampo nei talk-shows alla radio e alla TV, dove, ovviamente, tutto viene ridotto a battuta e "sound bite". Lo storico kennediano Arthur Schlesinger (che in una intervista al TG2 è stato presentato con il nome di "John Schlesinger") nel suo The Disuniting of America (New York:W.W. Northon & Co.) spiega in che modo le diatribe accademiche coivolgano la società nel suo complesso con implicazioni urgenti, e come la polemica su cosa debba essere insegnato nelle università, ed in quale dei molti dialetti accademici, sia in sostanza il dibattito su che cosa significhi l'identità americana stessa. Secondo Schlesinger, l'autoghettizzazione della storiografia femminile e dei neri d'America è il presagio di una più generale frammentazione sociale e pone a rischio l'ideale dell'unità politica nella diversità etnica. Nel suo libro Schlesinger ammette candidamente gli errori commessi dalla confraternita dei maschi eurocentristi, causati da pregiudizi "inconsci", ma si pone il problema di quali risultati potrà produrre la fabulazione antiscientifica della storiografia afrocentrica in cui si distinguono i più accesi ideologi di colore, e che trae ispirazione dal presupposto che la conoscenza, tutta la conoscenza, sia un riflesso della politica (sia politica di classe, che di razza, età o genere), opposta alla proposizione sociologica per cui la conoscenza affonda le sue radici nella cultura. Il discorso delle minoranze militanti non è certo una novità in Italia dove, per un paio di decenni, ha dominato il concetto che era sostanzialmente futile discutere di idee o di opere d'arte eccetto che nei termini "oggettivi" del loro orientamento politico. Questa posizione è naturalmente antitetica rispetto alla prospettiva di matrice idealista secondo cui la funzione dell'unversità non è di elevare l'autorispetto etnico, quanto il libero esercizio della "razionalità cognitiva" in un continuo processo dello spirito. Può dunque il sacro comandamento del free-speech essere considerato puramente eurocentricoe volto a mantenere lo status quo? E all'interno dell'università, il paravento della libertà di pensiero e di espressione può giustificare la pretesa neutralità di una visione storica che implicitamente assolve lo schiavismo, i progrom della Russia zarista, il colonialismo, l'oppressione delle donne? Assolve, in quanto presenta queste esperienze come momenti già accaduti, quindi inalterabili, dolorosi ma inevitabili come fasi di passaggio verso "le magnifiche sorti e progressive", sempre, s'intende, dal punto di vista dei sepolcri imbiancati, e mai da quello delle vittime.

Sotto attacco sono l'estetica, la storiografia, la filosofia e in una certa misura anche la scienza. Ogni tanto la polemica tocca argomenti sufficientemente "accessibili" anche ai media, i quali ci balzano addosso banalizzandoli con la consueta ignoranza e tracotanza arrogante. Di alcuni anni fa è la contesa su Cristoforo Colombo: eroe prometeico, simbolo eccelso dei valori universali della nostra civiltà? O lugubre conquistador, incarnazione della violenza bianca, avido e sadico schiavista, feroce razzista? Quale prospettiva abbracciare? Quella sancita da cinquecento anni di iconografia autoadulatoria, o quella "selvaggia" e "primitiva" degli indiani cui si sentono emotivamente affini i neri e le altre culture che hanno dovuto fare i conti con l'occidente dei sepolcri imbiancati?

Come insegnare Colombo ai nativi americani? E perchè parlando di crociate a dei musulmani è lecito presentarle dalla prospettiva del Deus Vult di Pietro l'Eremita ma non da quella del "feroce Saldino"? O da quella ancora meno nota degli ebrei massacrati a migliaia pur non rappresentando essi a quel tempo il "nemico" cui venivano contesi i luoghi santi? Abbandoniamoci un attimo alla tentazione dell'analogia per il puro gusto della provocazione: perchè leggere "La Gerusalemme liberata" del Tasso e non "Mein Kampf"? Solo per una questione di "poesia e non poesia"? Solo per un criterio di estetica? E come includere nel curriculum di storia americana l'esperienza della schiavitù (non dello schiavismo) parallelamente a quella del colonialismo e della guerra d'indipendenza nota come "rivoluzione americana"? Come integrare la prospettiva degli schiavi posseduti da Thomas Jefferson a Monticello nella storia della Dichiarazione d'Indipendenza ?

Se i fatti sono come la benzina (e questa è un'allegoria, non un'analogia), quale prospettiva -- quella bianca o quella nera -- costituirà l'ossigeno che darà vita al fuoco del sapere? E sarà il fuoco identico in ambedue i casi? E se non lo è, è proprio questo ciò di cui ha paura il potere dei sepolcri imbiancati? E' questo il punto in cui il potere bianco ergerà il muro, solleverà il ponte levatoio, innalzerà sulla torretta più alta il vessillo con la scritta "democrazia" e, alla sua ombra, deciderà caso per caso chi, cosa e come meriti l'"inclusione"?

Di fronte all'arrembaggio contro i totem sacri della cultura bianca, il sistema politico, quello economico e anche quello culturale danno segni di irrequietezza e parlano di democrazia e di "libertà" al plurale. Ma quale democrazia? Ridotta ai minimi termini, ai termini cui ci ha abituato la nostra versione bianca ed occidentale, democrazia significa il prevalere dell'opinione maggioritaria. Lo si sa bene nelle zone abitate dalle minoranze linguistiche o religiose quali sono le conseguenze ed i limiti della democrazia numerica. Democrazia, come e dove? Il resto d'Italia potrebbe imporre all'Alto Adige, per volontà democratica, l'uso della lingua italiana. Ma se restringiamo l'ambito territoriale, nell'Alto Adige a sua volta potrebbe prevalere una maggioranza che imponga il tedesco alle minoranze italiane. Ed ecco come, in un brevissimo raggio d'azione, la democrazia numerica cessa di essere una guida sicura nel ginepraio del quesito multiculturale. E tantomeno lo è all'interno dell'università. Nelle società plurilinguistiche, sarà sufficiente per le università offrire corsi sulle crociate "a prova di sensibilità islamica" in lingua nazionale, o ci si dovrà inoltrare nel dedalo dell'istruzione superiore multilinguistica?

Siamo forse in prossimità della chiusura del circolo e dell'implicita contraddizione in termini che la democrazia storica presenta? L'istituzione della democrazia non fu democratica nei suoi inizi. La democrazia si impose alla lunga tradizione della società aristocratica genocratica. In una società democratica il tentativo di restaurare i diritti del genos rispetto a quelli del demos viene considerata un atto reazionario. Ma a quale punto in una società democratica, l'atto politico cessa di essere l'espressione maggioritaria del demos, per diventare quella del genos? Dobbiamo proprio arrivare agli estremi della ex Jugoslavia perchè sia tutto chiaro? Non solo, ma l'atto politico nelle società moderne, soprattutto oggi nella fase post-ideologica, tende ad avere al suo centro la sfera economica e a non dissociarsi da esso se non per "issues" pseudo-etiche più simboliche che reali. E' un caso che, dall'Irlanda al Kurdistan, i poveri siano sempre le minoranze, gli "altri".

Nel suo recente libro Tiranny of the Majority, la influentissima costituzionalista e specialista di diritti civili Lani Guinier, sostiene argomenti di straordinario rigore logico, che il governo della maggioranza non è uno strumento affidabile di democrazia, particolarmente in una società etnicamente divisa. Il concetto di maggioranza "50% + uno" non è certamente lo stesso di democrazia. I gruppi maggioritari da sempre incontrano ostacoli nei loro propositi di trasformare preferenze specifiche in atti legislativi e quindi dettare le politiche della gestione sociale. Ad opporsi essi trovano, tra l'altro, la costituzione, che limita i poteri della maggioranza. E questo per la semplice ragione che le maggioranze sono inaffidabili, spesso soggette all'emozionalità dell'issue, passibili di errori e di sbandamenti. D'altra parte, quando una maggioranza sia pre-esistente a cambiamenti nella composizione etnica di una nazione, come nel caso di ondare di immigrazione, e sia basata su divisioni etniche e razziali, è probabile che questa maggioranza abbia creato per sè tutti gli strumenti che rendono impossibile alle minoranze l'accesso ai meccanismi di cambiamento.

Per secoli, i sepolcri imbiancati, con le egregie eccezioni delle sanguinose lotte religiose e ideologiche, hanno controllato all'unisono il discorso storico ed estetico: sono stati legislatore, poliziotto, pubblico ministero, collegio giudicante e secondino della cultura. Nei momenti di crisi la nostra civiltà, e, sospetto, tutte le altre civilità, fa appello al richiamo viscerale intellettualmente coltivato dell'identità genetica e della superiorità razziale: David Duke in Louisiana, Le Pen in Francia, Pamyat in Russia. In Italia si affaccia Umberto Bossi, leader della Lega Lombarda, al quale va la palma della semplicità oracolare per aver sintetizzato in un lampo il dilemma sociale della società democratica di oggi. In un'intervista a Fiamma Nirenstein Bossi si chiede retoricamente: "Che cos'è più importante? La democrazia o i negri?" La Neirenstein commmenta: "Qual è la relazione tra democrazia e razzismo? La democrazia può curare il razzismo? E d'altra parte, qual è l'impatto del razzismo sulla democrazia? E' con grande sconforto che dobbiamo ammettere che la democrazia non possiede le chiavi del problema: il razzismo non è "assorbibile" entro la norma democratica."

Il perchè è ovvio: la democrazia occidentale produce libertà ma non produce eguaglianza. Il problema per l'università è inerente alla natura della norma democratica da cui discendono gli "accidenti" specifici dei sistemi educativi. Il bastione della dominazione bianca in università, il canone, è il palcoscenico su cui si recita la tragedia della crisi della democrazia nella società multiculturale e multietnica. La natura stessa degli Stati Uniti, il fatto cioè che questa sia una "nazione artificiale" nata per esplicita volontà invece che da un'evolozione storico-politica di millenni, comporta che tutte le sue istituzioni siano state anch'esse pensate in base a orientamenti teorici che ne giustifichino le funzioni e ne identifichino la "missione". Nel 1873 il cardinale John Henry Newman, al cui nome sono intitolati i circoli universitari cattolici, nel libro poi divenuto un classico The Idea of The University, insiste sul concetto di università come luogo di insegnamento, piuttosto che di ricerca, a cui devono poter fare riferimento le comunità e i gruppi sociali. Ma è ancora valido questo modello nel momento, o è l'unico modello valido, nel momento in cui la conoscenza ed i metodi di trasmissione della stessa vengono contestati? O, riproponendo, come fanno alcuni, il modello del cardinale Newman, acceso oppositore delle teologie liberali, non si rischia piuttosto di esacerbare un confronto che nulla ha da guadagnare dal muro contro muro?

Dietro le istanze di revisione del canone, talvolta inconscia agli stessi promotori, c'è l'intuizione di un mutamento profondo del significato stesso di "universalità". Da universo di segnali emessi su di una singola banda di frequenza, captati da un ricevitore con un unico standard, oggi siamo già passati all'universo delle bande di frequenza e dei ricevitori, ciascuno atto a captare segnali diversi. A livello di tecnologia, il problema si risolve quantitativamente, senza cultura, aggiungendo altri canali al televisore, comprando il reader per il laser-disk e il digital video tape. A livello di dibattito nei media e di politica elettorale, invece funziona ancora "noi-contro-loro", "nord-contro-sud", "ice-people contro sun-people", cioè "il popolo del ghiaccio" (i bianchi), contro "il popolo del sole" (i neri), secondo la tesi di un tragicamente famoso ciarlatano nero, il razzista Leonard Jeffries del City College of New York. Sono problemi enormi, problemi che debordano dal contesto della gestione della cultura in chiave universitaria. Problemi che l'università in America si trova ad affrontare e cui deve poter offrire una valida risposta se non vuole che vinca il paradosso atroce di quegli italo-americani di Benson Hurst, il quartiere dove un nero è stato ucciso per il semplice fatto di essere nero nel posto sbagliato. Accusati di essere razzisti hanno risposto: "Non siamo noi a essere razzisti. Sono loro a essere negri."